lunedì, agosto 29, 2005

Riunioni di Famiglia

Il papa' della mia padrona di casa, Lois, si e' sposato quattro volte, la mamma soltanto tre. Ogni volta Lois mi racconta di ritrovi di alcuni parenti a casa del padre in cui alla fine si incontrano in 50-70 persone. Sorprendente, ma non troppo.
Per esempio alcuni alberghi in cui sono stato avevano, nelle hall, dei cartelli con indicazioni per riunioni familiari organizzate in sale private appositamente prenotate.
Infine ho trovato la storia piu' pazza e divertente, quella dei MacArthur. Il nome suggerisce origini europee, probabilmente scozzesi. Invece si tratta di una smisurata famiglia di ex schiavi africani, il cui cognome e' stato "regalato" da qualche padrone bianco.
La storia mi e' stata raccontata ad una cena da amici e poi confermata dalla collega in questione, appunto Joyce MacArthur, una nera statuaria vicina ai quaranta.
Joyce mi ha raccontato, tra una risata e uno sbuffo di divertito fastidio, come la sua famiglia si riunisca almeno una volta all'anno. Ogni anno in una citta' diversa, perche' i MAcArthur si sono sparpagliati per tutti gli USA.
Esiste un comitato organizzativo per le riunioni dei MacArthur, che pianifica tutto: hotel, perche' tutti stanno nello stesso albergo; giro turistico della citta' scelta, con guida e bus vari privati; cena/e e festeggiamenti; premiazioni, studi sull'albero genealogico, progressi che ogni anno si cerca di fare per capire precisamente da che parte dell'Africa arrivino i MacArthur.
Un'esagerazione? Direi proprio di no, visto che Joyce mi confessa delusa che quest'anno alla fine erano presenti alla riunione di famiglia solo in 300, sparsi su 4 generazioni. In alcuni anni, mi dice, alle riunioni sono stati contati oltre 400 MacArthur tra consanguinei e parenti vari.
I MacArthur sono soprattutto un'incarnazione beffarda del sogno americano: tra i loro vanti c'e' quello di aver comprato tutte, ma proprio tutte le terre che i loro avi coltivavano come schiavi.

lunedì, agosto 08, 2005

Chief Seattle Club

L'aereo da San Diego mi fa arrivare a Seattle alle 8 di sera (le cinque del mattino in Italia). Sono curiosissimo di vederla (qua si e' sviluppata la Microsoft, la Boeing, diverse catene commerciali americane come Starbucks e Nordstrom; musicalmente il Grunge di Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains; e soprattutto a pochi km da qua c'e' il Klondike), tra mille riunioni, incontri, camminate per mostrare come gli homeless in questa liberalissima citta' (il bus in tutto il centro e' gratis per tutti dalle 8 alle 19, p.e.) vengano riportati in societa'. Abituato a popolazioni homeless generalmente nere o a veterani delle varie guerre americane e' stato affascinante incontrare finalmente un "native American", un indiano d'America. La persona che mi accompagna si ferma a farmi conoscere lo staff del Chief Seattle Club perche' io possa avere un'idea del fenomeno. Ne resto affascinato; probabilmente sono i 30 minuti piu' produttivi della mia esperienza nella costa west. Gli Indiani sono un popolo allo sfascio, volutamente "dimenticati" dai libri di storia americana negli States. Gli statunitensi interessati a saperne di piu' devono passare attraverso altri sistemi, escludendo l'intero canale educativo preuniversitario. Nell'America del Nord prima dell'arrivo dei primi vascelli spagnoli esistevano circa 200 tribu, 36 delle quali nello spazio che va dallo stato di Washington (di cui Seattle e' capitale) all'Alaska. Variamente macellati da spagnoli, inglesi, francesi, cercatori d'oro e altri gentlemen impegnati nella corsa all'oro e al west, o deliberatamente massacrati negli stati del Montana e del Nord e Sud Dakota dallo stesso esercito americano, nel ventesimo secolo sono definitivamente stati ridotti a vivere in "Riserve", che e' meglio definire lager, dove generalmente passano la giornata ad ubriacarsi, vergognarsi, uccidersi. In certi periodi dello scorso secolo i figli appena nati in riserva venivano allontanati dai genitori e dati in adozione altrove: queste persone non sono in grado ora di dire a quale tribu appartengano. Il guaio e' che solo se sono in grado di dimostrare di essere indiani, al di la' della loro evidente appartenenza genetica all'etnia dei nativi americani, queste persone possono ricevere alcuna sovvenzione economica.Il Chief Seattle Club ha come scopo principale il rintracciare le origini degli "indiani" di Seattle che ne facciano richiesta. In mia presenza un uomo sulla quarantina ha scoperto di non essere un Apache (pronuncia apaci), ma un Navajo. I native americans che ho incontrato sono persone aggressive in un primo momento, ma tenere e ospitali dopo, non guardano quasi mai negli occhi (ha un valore piuttosto sessuale fissare una persona negli occhi parlandole), e nell'esoteria della loro cultura amano i circoli (sole, orizzonte, luna, la base delle loro tende o dei loro totem) e molto meno i quadrati (i bianchi che disegnavano spesso quadrati, per progettare gli accampamenti, erano poco ben visti anche per questo). Un indiano abbraccia per trasmettere sicurezza prima che affetto. La persona che e' stata con me agli incontri e' stata sempre abbracciata, io mai. Nella foto che vi allego vedrete due indiani, dentro al Chief Seattle, di fianco ad un totem fatto da un indiano dell'Alaska dieci anni fa.



La ragazza e' un mezzosangue indiano-afroamericano, il signore e' un indiano omosessuale. Nella cultura indiana i gay non sono assolutamente maltrattati. Anzi vengono considerati fortunati, e definiti "due spiriti", in quanto hanno dentro di loro lo spirito maschile e quello femminile. Gli sforzi per mantenere la cultura indiana viva sono fortissimi. Un esempio? Meno di un anno fa e' stato inaugurato nel Mall di Washington D.C. il museo della cultura dei Native Americans. Per l'occasione si sono radunati davanti all'edificio 25.000 indiani provenienti dai cinquanta stati americani.Conquistato dall'attivita' del Chief Seattle Club, decido di fare una microscopica donazione di 25 dollari, ma la mia coscienza resta sporca.

lunedì, luglio 25, 2005

Chiacchiere e (ancora) trasporti

L'altra sera ho cenato con una famiglia americana con due figli uno di 15 mesi e l'altro di 15 anni. Gli americani tendono a metterti a tuo agio, non ti lasciano mai segregato in un angolo di conversazione, e quindi si chiacchierava amenamente, quando ho ricevuto la domanda piu' imbarazzante di tutta la mia esperienza statunitense. A farla il quindicenne, che ha chiesto "Quali sono le nazioni rivali dell'Italia?" Tremendo! Parlava proprio di guerra, dando per scontato che la cultura in cui lui sta crescendo fosse condivisibile da chi vive nella vecchia Europa. Colto dal panico gli ho detto che semmai c'e' un po' di maretta internamente all'Italia, tra nord e sud, ma senza che questo porti a guerre civili o invasioni. Pareva poco soddisfatto, ma per fortuna la mia padrona di casa, che in Europa ha vissuto diversi anni, ha cambiato discorso. Questo e' un tipo di americano medio. Come in ogni cultura, ci sono diverse tipologie di mediocrita', non sempre da considerare per intero negativi. Mediocri sono sempre di piu' i trasporti via terra del Maryland. I bus locali non fanno pero' concorrenza ai bus "regionali" come Greyhound o Peter Pan. Questi sono, in particolare i primi, il top della sporcizia e dell'economicita'. Ad ogni fermata del bus che ho preso direzione New York tutti scendevano a comprarsi da mangiare, compreso l'autista. Appena il bus ripartiva sembrava di essere dentro ad una kebaberia. Prezzo in bus Baltimore New York 20 dollari via internet. Via treno sarebbero stati 130 dollari. Per 300 kilometri. I treni invece sono puliti, comodi e abbastanza in orario, se si escludono i vagoni bestiame per i pendolari. Costano carissimi e sono poco utilizzati dagli americani perche' considerati poco sicuri. Invece a New York e a Philadelphia i bus e il metro sono fenomenali, anche perche' soprattutto a NYC il traffico e' a livello di quello romano o napoletano. Ne passano tanti, direzione Nord Sud o Est Ovest generalmente. Costano piu' cari (2 dollari a biglietto, ma con 7 dollari comperi il giornaliero), ma sono puliti, veloci e ti orienti senza troppa difficolta'. Frecciatina invece ad un mezzo di trasporto piu' particolare, ma a New York assolutamente necessario, l'ascensore. Come regalo di compleanno ho pensato di andare sull'Empire State Building. Normalmente la coda per salire arriva fin sulla strada, e circa 35 mila persone vi salgono ogni giorno. Quando siamo arrivati non sembrava esserci coda. Salita la rampa di scale che portava alla biglietteria (15 dollari per salire a cranio), c'e' voluta un'ora buona prima di prendere un ascensore che in 15 secondi ha fatto 80 piani (il contatore era un po' poco realistico, voglio sperare che fosse rotto, comunque faceva effetto vedere i piani contati 20 alla volta). Un esempio della vista da lassu' lo trovate qua sotto.


domenica, luglio 10, 2005

Quattro luglio

Ciao a tutti,oggi e' il quattro luglio, il compleanno degli USA, come molti qua lo chiamano.Mi e' stata consigliata la parata (parade) del quartiere in cui abito, una family parade.Ritrovo alle dieci di mattina davanti alla biblioteca e partenza per una camminata di quattro isolati. Una breve serie di discorsi di politici locali e poi via libera, dietro al camioncino dei pompieri per tutti i bimbi variamente addobbati con cappelli a stelle e strisce, vestitini biancorossoblu, bandierine ovunque. Anche i mezzi di trasporto sono addobbati, e comprendono monopattini, biciclette e carrettini trainati da pazienti genitori. I carrettini mi hanno ricordato le vignette di Charles Schultz e anche quelle in cui Calvin e Hobbes, abbandonato lo slittino perche' non c'e' piu' neve si buttano giu' dalla collina a tutta velocita' appunto su un carrettino che va puntualmente a disintegrarsi contro un albero, tra le risate e i graffi dei due piccoli protagonisti. Finale della parata? Tutti davanti ad una chiesa di Roland Avenue, dove i pompieri si attaccano ad un idrante e iniziano a lanciare in aria forti getti d'acqua. Ad attenderli sotto con la bocca aperta e bagnati fradici sono i bambini felici, per questa doccia enorme che si muove e bisogna seguire per continuare a bagnarsi.



Un quarto d'ora dura questa festa, e alla fine genitori e bambini sono tutti zuppi e sorridenti, cosi' vanno le cose...Sono 229 anni da quando e' stata letta e approvata a Filadelfia la dichiarazione di indipendenza. Il nazionalismo di questo popolo esplode questo giorno, con parate di ogni tipo in cui prevalgono i colori bianco rosso e blu della bandiera. Si recita il giuramento ('I pledge allegiance to my Flag and to the Republic for which it stands, one nation, indivisible, with liberty and justice for all"), e poi viene letta la dichiarazione di indipendenza firmata il 4 luglio 1776 dai rappresentanti del congresso e degli allora 13 stati americani. Tra i firmatari Benjamin Franklin, probabilmente il piu' famoso quacquero (assieme a William Penn che ha dato nome allo stato della Pennsylvania e involontariamente a diverse piazze e stazioni in varie citta' americane). I quacqueri sono pacifisti, non hanno una struttura religiosa e quindi non hanno preti, ma hanno un consiglio per ogni comunita' e si incontrano la domenica in una stanza, in cui si siedono tutti assieme in silenzio, e chi vuole si alza e parla (quindi e' possibile che prima che qualcuno parli passino quarti d'ora di silenzio). Esistono delle rinomate e costosissime scuole quacquere, che basano i propri insegnamenti sul codice di cui vi ho parlato sopra. Politicamente il peso dei quacqueri e' diminuito, anche se e' ancora forte. Immaginate che sono alla base della fine della schiavitu' negli stati del sud e comunque hanno avuto diversi presidenti tra loro, ad iniziare da Franklyn per finire con Nixon. Minoranza religiosa che mantiene ancora potere di lobby fortissimo proprio perche' in fondo ha un fascino moderno e antico al tempo stesso ed idee che continuano a piacere al di la' di tutto da oltre trecento anni.

giovedì, giugno 30, 2005

Musei USA e Little Italy

Ciao,procede la mia immersione nella cultura americana. Ora sono coinvolto dalla voce straordinaria di Janis Joplin, che mi ha accolto anche domenica sera, al ritorno da un'altra capatina in giornata a New York, approfittando del fatto che un'amica milanese si trovava li' in vacanza. Confermo, NY e' citta' per ogni gusto. Sono sceso dal bus a Times Square, e si stava organizzando la festa del solstizio d'estate, con mega seduta (e' il caso di dirlo) di Yoga nella zona piu' incasinata della citta'...L'appuntamento con la milanese era davanti alla Frick Collection, a mezzogiorno. Per arrivarci ho cautamente fatto visita ad ogni negozio scrauso della fifth avenue, primo tra tutti l'NBA store (non potete immaginare, come se a Roma ci fosse un calcio store con tutte le magliette dei migliori calciatori di ogni squadra, anche firmate, e tutto il merchandise di cappellini, asciugamani, etc.), e i suoi due densi piani.Negli USA il sistema museale e' diviso in musei pubblici e fondazioni private. I musei pubblici non ricevono forti sovvenzioni statali come in Italia. Il costo del biglietto lievita e questo limita l'accesso ai poco abbienti. Il biglietto per il MOMA, di cui vi ho parlato qualche mail fa, costa 20 dollari, ridotti a 12. Le fondazioni private, in quanto tali, hanno invece piu' soldi, e i biglietti costano di meno. Alla Frick collection l'intero costa 10 dollari, ma ci sono all'interno tre Vermeer (su 32 al mondo) e altri capolavori da Tiziano a Degas, passando dal piu' famoso autoritratto di Rembrandt. Non vorrei commentare il fatto che privati possano possedere tale patrimonio artistico (per fortuna alcuni di essi lo rendono pubblico, come appunto Frick, Phillips e Barnes, ma quanti non lo fanno?)Fondazioni e musei pubblici hanno un sistema per cui se tu paghi un tot di dollari (diciamo tra 25 e 50) una volta, come se fossi un socio sostenitore, per tutta la vita avrai accesso gratuito al museo e sconti per chi viene con te. Molti americani acquistano quindi queste membership card che in pratica finanziano direttamente il museo che a loro piace.In attesa dell'apertura del Frick abbiamo fatto un giro a Central Park. Non ci sono parole per descrivere la dimensione di questo parco squadrato; la nostra meta era la terrazza e la fontana di Bethesda, immortalate da tantissimi film. Tutto attorno a questa bella area del parco c'e' un laghetto, e se vuoi puoi noleggiare una barca. C'e' pure un gondoliere (stendiamo un velo pietoso).Lasciato il parco e terminata la visita alla Frick, ci si separa e prendo la metro direzione Ponte di Brooklyn. In se' e' un grosso pontaccione, quasi due km, piuttosto stabile. Sui lati ci sono le tre corsie a direzione per le macchine, in mezzo c'e' il camminatoio per i pedoni. A meta' del ponte la vista sulle due zone di grattacieli di NY e' gradevole. I grattacieli di downtown, dove si trova la city finanziaria e si trovavano le twin towers, poi una zona di edifici piu' bassi e poi i grattacieli che dall'Empire portano fino a Central Park. Se si guarda bene, a sinistra della city si intravede la statua della liberta', quasi minuscola rispetto al panorama di cemento, metallo e vetro dell'isola.Tornato all'inizio del ponte ho ancora tre ore da spendere, e decido di arrivare a piedi a Chinatown e Little Italy, un km in zona tranquilla, almeno fino a quando iniziano i negozi di chincaglieria cinese (dagli occhiali alle vetrerie, alla frutta e al cibo). Un poliziotto mi ha consigliato di andare a Mulberry St. e infatti li' e' il centro della Little Italy storica, pieno di ristoranti, e scusate tanto, mi compro un mega cannolo e lo giustizio sul posto (2.5 dollari, ma ben spesi). Trovo una panchina per proteggermi dalla folla affamata di americani che gia' alle quattro di pomeriggio riempie i ristorantini. E' proprio vicino alla straripante pizzeria Lombardi (che vanta tra i propri clienti anche Lou Reed). Seduto leggo alcune note della guida city book del corriere. Little Italy ha una storia di immigrazione che inizia ancora prima del 1900, ed ha un picco nella prima meta' del xx secolo, quando in 17 edifici della zona vivono 40 mila nostri compaesani, devastati dalla poverta' e dalla tubercolosi che in situazioni di sovraffollamento ovviamente si propaga facilmente. Alzo gli occhi e osservo queste case fatiscenti (ne vedete una nella foto che allego);



mi chiedo come abbiano potuto ospitare cosi' tanta gente in una striscia di citta' cosi' piccola. Eppure e' stato cosi', e il paragone con alcune vie di Torino e' immediato (Via Berthollet, Via Cottolengo, Corso Giulio, Via Saluzzo). Non me ne dimenticavo prima, a maggiore ragione non lo dimentichero' ora.Adesso a Little Italy vivono, in un fazzoletto di una decina di strade, solo 5000 italoamericani, e piano piano China Town la sta inghiottendo.Lascio Little Italy, salgo sul metro direzione Palazzo dell'ONU. Ci arrivo verso le cinque e mezza, il sole lo ha sorpassato e la facciata e' in ombra, ma e' imponente e riflette l'intera sagoma del Chrysler Building (il palazzo avveniristico su cui si arrampica King Kong). Stremato mi dirigo al Rockefeller center, salgo sul bus e divoro la pizza comprata al Caffe' Palermo (che buona, piccantina, col pomodoro e la mozzarella). Il film (Under the tuscany sun, 2003, con Diane Lane e Raoul Bova, vergogna a loro) che proiettano sul bus al ritorno, per mia sfortuna e' un concentrato di luoghi comuni americani sull'Italia e i maschi italiani, con una svampita che compra una villa scassata in Toscana e poi alla fine si integra perfettamente nella zona e fa da mangiare per tutti. La mia vicina quarantenne ovviamente piange copiosamente tanto il film e' commovente. Tremendo...

martedì, giugno 21, 2005

Cibo e co.

Cibo e co.
Non ci consideriamo troppo superiori agli americani in fatto di cibo! Provate a cucinare bene un hamburger da quattro etti e vi renderete conto che il barbecue o comunque cucinare la carne non sono cosi' semplici.E' comunque vero che gli americani danno un altro valore al cibo e al momento del pasto in genere. A loro non viene un infarto se la pasta e' scotta, o si raffredda, o viene mischiata con altri tipi di pasta. Se il sugo c'e' bene, se no amen, e cerco di spiegarmelo anche con il fatto che l'americano mangia praticamente in continuazione. Ha tre pasti convenzionali (colazione, pranzo da mezzogiorno e cena dalle sei), pero' ama inframmezzare spuntini con ogni genere di cibo, dolce o salato, mischiato con bevande sempre ghiacciate (le non alcoliche si chiamano generalmente soda, come ad esempio coca, fanta e pepsi, ma anche the freddo). Mangia ovunque, spesso per strada, sul posto di lavoro, davanti alla tv (che non e' in cucina)...L'americano si emoziona per i bagels (ciambelle dolci o salate aperte in orizzontale per essere farcite di crema di formaggio philadelphia), mette il pane in frigo e lo usa per una settimana, divora zuppe di pollo o con funghi e zucchini, va matto per le bistecche (che pero' pochi si possono permettere visto che una cena ad una steak house costa a persona come due paia di levi's). Fa la coda davanti ai negozi Subway, super di moda: si vendono panini giganti tipo baguette, lunghi fino ad un metro e farciti di ogni delizia fredda, che poi vengono messi in scatolini di cartone con manico lunghi anch'essi un metro e portati a casa. Se si vuole organizzare un party a base di cibo subway si puo' spendere anche 90 dollari, ed esistono molte famiglie che il sabato sera o la domenica a pranzo arrivano a casa con quei cartoncini.Il pezzo forte resta comunque l'hamburger (vi chiederanno se lo volete poco cotto, cotto o well done) con il quale la fantasia del cuoco americano si libera in un crescendo di accostamenti con il formaggio cheddar o blue (specie di gorgonzola), o swiss (gruviera) e magari il provolone. Assieme troverete ogni sorta di salse, che mischiano pomodoro, mayonese e aceto, oltre allo yogurth e salsine piccanti varie. I piu' snob (come me) sceglieranno il bacon burger, comprensivo di fette di pancetta croccanti. L'hamburger viene servito con le posate. Onestamente io lo mangio con le mani a mo di panino, ma molti lo separano dal pane e lo mangiano come fosse appunto solo un hamburger. Il contorno di questo piatto comprende patatine chips, patatine fritte, patatine messicane, cetrioli e lattuga.

mercoledì, giugno 15, 2005

Sesta mailona (Mall, automobili e bus nel Maryland)

Questo we non sono andato via, ho preso fiato, ed ho girato per Baltimora.In particolare ho rivisitato il Mall di Towson. Un Mall e' un centro commerciale di dimensioni americane, ma questo qua non e' mostruoso. Calcolate 1.5-2 volte le Gru, con ai lati due enormi magazzini di abbigliamento disposti su quattro piani. Io sono cliente "affezionato" di uno di questi, Hecht's. Qui ho trovato jeans levi's (pronuncia livais) 501 a 30 $ (25 euro), 505 a 20 $, timberland da vela a 59 $, nike da basket a 35 $, e ogni sorta di pantaloni dockers: ne ho presi tre, uno di lino (40 $), uno taglio classico (35 $, a Torino costa circa 80 euro, ma forse mi sbaglio al ribasso) e un paio di shorts (17 $ in saldo). Non si tratta di un negozio tipo bonpat; e' che qua il vestiario, come mi avevano detto, costa pochissimo. Uscito da quel paradiso, per non farmi spolpare fino all'osso, ho sgambettato per ore (e chi mi conosce sa che odio fare shopping, ma questo e' il paese del bengodi!) tra le camminate del centro commerciale, e poi mi sono arreso all'idea di prendere il bus per andare in centro (che dista 5-6 miglia). I bus qua funzionano come in un paese terzomondista. Ti siedi e aspetti (tanto, mezz'ora se va bene). Poi sali, l'autista ti saluta e ti chiede come stai (non sto scherzando, lo fanno tutti qua, anche i netturbini, l'importante e' grugnirgli qualcosa per non essere maleducati e tutti sono contenti). I bus di Balto sono popolati, come vi dicevo gia', da neri e latini, qualche raro bianco. Il caso ha voluto che io abbia preso l'8, famigerato per fare il giro di ogni ghetto nero del nord di Balto. Quindi ho incontrato il meglio, ma devo dire che ancora nessuno mi ha provocato. Parlottano tra loro in quello slang nero che e' quasi un dialetto, con intercalari quali "man", "ya 'now" e altri che non colgo e che comunque loro usano a velocita' altissime. Sono piuttosto sorridenti, tranne quelli che devono fare i duri, quelli con la cuffia in testa come nei video dei rapper per intenderci, o con il medaglione al collo che arriva quasi alla cintura. Hanno il cellulare e l'abbonamento del bus, ma poi se cerchi sotto sotto, parlando con i colleghi dell'Istituto o con altre persone si scoprono cose che in Italia non arrivano.Il 60% della popolazione carceraria americana e' nero. A fronte di una popolazione nera di 38.7 milioni di abitanti (3.6 nella sola NYC), equivalenti ad un 13% abbondante della popolazione americana. 1 milione di questi ha un diploma superiore alla laurea. Guadagnano in media 30.000 dollari all'anno, una miseria per questo paese.Negli USA l'assicurazione sanitaria e' praticamente obbligatoria e costa in media ad una famiglia di 4 persone quasi 9.000 dollari l'anno. Quindi non tutti riescono ad avere adeguata copertura, che alle volte e' compresa nel contratto di lavoro e a volte no. Chi non lavora ovviamente o e' ricco o e' sotto la soglia di poverta' (30% delle famiglie di Balto sono in questa situazione). Allora ci si arrabatta, generalmente con la droga, visto che Baltimora e' un porto del fiume Chesapeake e quindi e' frastagliatissima e adatta a ricevere e smistare carichi provenienti dall'acqua. I bus sono guidati tutti da neri (in un mese non ho visto un bianco guidarli). Collegano il centro con ogni zona della citta', ma con orari che gridano vendetta. In questo modo, si dice, chi vive nel ghetto resta nel ghetto. E se resti nel ghetto lavoro non ne trovi. E se non trovi lavoro...Particolare per farvi sorridere un po': la popolazione zarra americana e' pressoche' composta da... neri e latini. Confermo che quando si sente una macchina (che non tanti neri si possono permettere) con i bassi pompatissimi, e' di proprieta' di uno o una nera. Devo ammettere che le macchine dei giovani neri sono meravigliose. Generalmente Lincoln, Chevrolet, Ford degli anni 60-70, scassatissime, ma con megastereo, si intende. Sedili in pelle sforacchiata tirati indietro e reclinatissimi, che non so come vedano la strada, finestrini aperti per condividere con i passanti i gusti musicali, colori improbabili. Un vero inno al vintage. Chapeau!Ultimo particolare che voglio fornirvi e' che i neri sono sempre disponibilissimi, chiacchierini, allegri, ti aiutano. Sono stato fermato da almeno dieci neri perche' vado in giro con la maglia da rugby del Sud Africa. L'ultimo era alla fermata dell'11 sabato. Era al cellulare e mi ha visto. Ha detto "hold on" (stai in linea) al tipo con cui parlava ed ha chiacchierato con me due minuti buoni sulla mia maglia e le sue origini. Poi mi ha salutato e ha ripreso a parlare al cellulare: incredibile a dirsi, l'altro era ancora all'altro capo del telefono e si e' fatto spiegare per filo e per segno cosa fosse successo, poi mi sono allontanato per evitare nuovi bottoni...