lunedì, agosto 29, 2005

Riunioni di Famiglia

Il papa' della mia padrona di casa, Lois, si e' sposato quattro volte, la mamma soltanto tre. Ogni volta Lois mi racconta di ritrovi di alcuni parenti a casa del padre in cui alla fine si incontrano in 50-70 persone. Sorprendente, ma non troppo.
Per esempio alcuni alberghi in cui sono stato avevano, nelle hall, dei cartelli con indicazioni per riunioni familiari organizzate in sale private appositamente prenotate.
Infine ho trovato la storia piu' pazza e divertente, quella dei MacArthur. Il nome suggerisce origini europee, probabilmente scozzesi. Invece si tratta di una smisurata famiglia di ex schiavi africani, il cui cognome e' stato "regalato" da qualche padrone bianco.
La storia mi e' stata raccontata ad una cena da amici e poi confermata dalla collega in questione, appunto Joyce MacArthur, una nera statuaria vicina ai quaranta.
Joyce mi ha raccontato, tra una risata e uno sbuffo di divertito fastidio, come la sua famiglia si riunisca almeno una volta all'anno. Ogni anno in una citta' diversa, perche' i MAcArthur si sono sparpagliati per tutti gli USA.
Esiste un comitato organizzativo per le riunioni dei MacArthur, che pianifica tutto: hotel, perche' tutti stanno nello stesso albergo; giro turistico della citta' scelta, con guida e bus vari privati; cena/e e festeggiamenti; premiazioni, studi sull'albero genealogico, progressi che ogni anno si cerca di fare per capire precisamente da che parte dell'Africa arrivino i MacArthur.
Un'esagerazione? Direi proprio di no, visto che Joyce mi confessa delusa che quest'anno alla fine erano presenti alla riunione di famiglia solo in 300, sparsi su 4 generazioni. In alcuni anni, mi dice, alle riunioni sono stati contati oltre 400 MacArthur tra consanguinei e parenti vari.
I MacArthur sono soprattutto un'incarnazione beffarda del sogno americano: tra i loro vanti c'e' quello di aver comprato tutte, ma proprio tutte le terre che i loro avi coltivavano come schiavi.

lunedì, agosto 08, 2005

Chief Seattle Club

L'aereo da San Diego mi fa arrivare a Seattle alle 8 di sera (le cinque del mattino in Italia). Sono curiosissimo di vederla (qua si e' sviluppata la Microsoft, la Boeing, diverse catene commerciali americane come Starbucks e Nordstrom; musicalmente il Grunge di Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains; e soprattutto a pochi km da qua c'e' il Klondike), tra mille riunioni, incontri, camminate per mostrare come gli homeless in questa liberalissima citta' (il bus in tutto il centro e' gratis per tutti dalle 8 alle 19, p.e.) vengano riportati in societa'. Abituato a popolazioni homeless generalmente nere o a veterani delle varie guerre americane e' stato affascinante incontrare finalmente un "native American", un indiano d'America. La persona che mi accompagna si ferma a farmi conoscere lo staff del Chief Seattle Club perche' io possa avere un'idea del fenomeno. Ne resto affascinato; probabilmente sono i 30 minuti piu' produttivi della mia esperienza nella costa west. Gli Indiani sono un popolo allo sfascio, volutamente "dimenticati" dai libri di storia americana negli States. Gli statunitensi interessati a saperne di piu' devono passare attraverso altri sistemi, escludendo l'intero canale educativo preuniversitario. Nell'America del Nord prima dell'arrivo dei primi vascelli spagnoli esistevano circa 200 tribu, 36 delle quali nello spazio che va dallo stato di Washington (di cui Seattle e' capitale) all'Alaska. Variamente macellati da spagnoli, inglesi, francesi, cercatori d'oro e altri gentlemen impegnati nella corsa all'oro e al west, o deliberatamente massacrati negli stati del Montana e del Nord e Sud Dakota dallo stesso esercito americano, nel ventesimo secolo sono definitivamente stati ridotti a vivere in "Riserve", che e' meglio definire lager, dove generalmente passano la giornata ad ubriacarsi, vergognarsi, uccidersi. In certi periodi dello scorso secolo i figli appena nati in riserva venivano allontanati dai genitori e dati in adozione altrove: queste persone non sono in grado ora di dire a quale tribu appartengano. Il guaio e' che solo se sono in grado di dimostrare di essere indiani, al di la' della loro evidente appartenenza genetica all'etnia dei nativi americani, queste persone possono ricevere alcuna sovvenzione economica.Il Chief Seattle Club ha come scopo principale il rintracciare le origini degli "indiani" di Seattle che ne facciano richiesta. In mia presenza un uomo sulla quarantina ha scoperto di non essere un Apache (pronuncia apaci), ma un Navajo. I native americans che ho incontrato sono persone aggressive in un primo momento, ma tenere e ospitali dopo, non guardano quasi mai negli occhi (ha un valore piuttosto sessuale fissare una persona negli occhi parlandole), e nell'esoteria della loro cultura amano i circoli (sole, orizzonte, luna, la base delle loro tende o dei loro totem) e molto meno i quadrati (i bianchi che disegnavano spesso quadrati, per progettare gli accampamenti, erano poco ben visti anche per questo). Un indiano abbraccia per trasmettere sicurezza prima che affetto. La persona che e' stata con me agli incontri e' stata sempre abbracciata, io mai. Nella foto che vi allego vedrete due indiani, dentro al Chief Seattle, di fianco ad un totem fatto da un indiano dell'Alaska dieci anni fa.



La ragazza e' un mezzosangue indiano-afroamericano, il signore e' un indiano omosessuale. Nella cultura indiana i gay non sono assolutamente maltrattati. Anzi vengono considerati fortunati, e definiti "due spiriti", in quanto hanno dentro di loro lo spirito maschile e quello femminile. Gli sforzi per mantenere la cultura indiana viva sono fortissimi. Un esempio? Meno di un anno fa e' stato inaugurato nel Mall di Washington D.C. il museo della cultura dei Native Americans. Per l'occasione si sono radunati davanti all'edificio 25.000 indiani provenienti dai cinquanta stati americani.Conquistato dall'attivita' del Chief Seattle Club, decido di fare una microscopica donazione di 25 dollari, ma la mia coscienza resta sporca.